Il targeting comportamentale, tecnica usata da editori digitali e inserzionisti per aumentare l’efficacia di una campagna pubblicitaria, raccoglie, attraverso i celebri cookies, i dati sul comportamento e le preferenze degli utenti online usandoli per profilarli e sottoporli a pubblicità personalizzate. Questa strategia è stata la forza dominante nella pubblicità digitale degli ultimi anni, ma sembra non avere più futuro.
I dati di un recente studio sull’impatto della pubblicità comportamentale sui ricavi degli editori online dimostrano infatti che questi banner che ‘inseguono’ gli utenti nel web potrebbero non essere così efficaci.
Lo studio, dopo aver monitorato milioni di transazioni pubblicitarie di una grande azienda statunitense nel corso di una settimana, conclude che gli editori che abilitano i cookies ottengono solo il 4% in più di entrate rispetto a chi non lo fa, che tradotto significa un guadagno di 0,00008 dollari per banner.
Tutto questo, insieme ai recenti impedimenti normativi sulla protezione dei dati (GDPR 2018) e il proliferare di programmi che bloccano le pubblicità (solo in America dall’inizio dell’anno 75 milioni di utenti hanno abilitato gli ad blocker) ci fa ben pensare che è opportuno un ridimensionamento delle tecniche pubblicitarie digitali e che editori e creatori di contenuti dovrebbero evolvere e abbracciare il concetto: content is king.
I consumatori dopotutto vogliono contenuti personalizzati, tempestivi e con un valore aggiunto, e non campagne pubblicitarie aggressive che li seguono ovunque.
Il content marketing sostituisce l’annuncio tradizionale con contenuti che funzionano e attirano più facilmente l’attenzione degli utenti, il messaggio dell’inserzionista dovrà quindi essere accurato, informativo, semplice, divertente ed interattivo.